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Voto: 6.5/10 Titolo originale: Rogue One: A Star Wars Story , uscita: 14-12-2016. Budget: $200,000,000. Regista: Gareth Edwards.

Rogue One: A Star Wars Story, la recensione del film di Gareth Edwards

23/03/2020 recensione film di William Maga

Il primo spin-off della celebre saga rimedia a una domanda rimasta in sospeso per anni, ma non offre pathos e affezione verso i suoi protagonisti

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La scena di apertura di Rogue One: A Star Wars Story di Gareth Edwards è emozionante. Si inizia con una splendida veduta panoramica di un pianeta remoto e lontano, un luogo magico dove l’oceano si fonde in una valle avvolta dalla nebbia. Un’astronave spigolosa simile a un uccello perfora l’orizzonte grigio e atterra sul suolo coperto di fogliame. Per coloro che vivono in questo luogo, l’arrivo della navicella non sembra essere del tutto inaspettato – un latitante ispido di nome Galen Erso (Mads Mikkelsen) sussurra quattro parole minacciose a sua moglie: “È venuto per noi.”

rogue-one-star-wars-posterUna falange di soldati calpesta l’erba e il loro capo, Orson Krennic (Ben Mendelsohn), li incalza. Il vento ringhia sull’orlo bianco del suo mantello imperiale in un campo lungo che unisce la bellezza tattile della trilogia originale di George Lucas con il mitico portento western che ha definito il primo atto di Il Risveglio della Forza (o di C’era una volta il West se preferite).

Il dialogo è conciso ed elettrico; i personaggi traboccano di un pathos degno del mondo maestoso in cui vivono. Si tratta di Star Wars non come lo conosciamo, ma come ce lo ricordiamo – questo è lo Star Wars come abbiamo sempre voluto che fosse. Le possibilità sono infinite. Il potenziale è infinito quanto le stelle della galassia. Finalmente, un film di Star Wars che non deve essere responsabile per tutti gli altri capitoli.

Correzione: finalmente, un film di Star Wars, che non avrebbe dovuto essere responsabile per tutti gli altri capitoli.

Come presto si arriva a scoprire, per esistere, Rogue One non necessita di alcun avvincente motivo nella narrazione. Tentativo brioso, ma angosciosamente sicuro di espandere ancora di più una delle saghe più sacre della storia del cinema e di tenere oliati gli ingranaggi tra un nuovo capitolo e il seguente, questa frammentaria prima “Antologia di Star Wars” è in definitiva soltanto un pretesto glorificato per retro-donare un certo senso a una delle cose più sciocche dell’originale. Ricordate quanto fosse bizzarro che la possente Morte Nera di Darth Vader avesse un punto debole che rendeva l’intera distruttiva base vulnerabile a un solo colpo ben piazzato? Ebbene, ecco un film di 134 minuti che non ha altro scopo se non quello di spiegare il motivo di tale svista architettonica.

Ambientato nel periodo di tempo tra gli eventi di Episodio III – La vendetta dei Sith del 2005 e Una nuova speranza del 1977, Rogue One è frutto dell’ingegneria inversa tesa a renderlo tessuto connettivo tra le due trilogie separate della continua espansione dell’universo di Star Wars. Racconta la storia di un gruppo scombinato di combattenti della resistenza (eh si) che si uniscono per rubare i progetti della Death Star e, infine, trasmettere le specifiche della sua vulnerabilità alla principessa Leila Organa.

Al centro di questo gruppo eterogeneo c’è la figlia di Galen, Jyn (Felicity Jones), indistinguibile dalla dolce e coraggiosa eroina di Episodio VII, salvo che per la sua privilegiata disillusione – Jyn, che teme che suo padre abbia venduto la sua anima all’Impero, non crede che il futuro sia qualcosa per cui valga la pena di lottare (perché non ha mai dovuto lottare per esso).

rogue-one-jyn“Non ti preoccupa veder sventolare la bandiera imperiale?” qualcuno le chiede. “Non è un problema se non si guarda in alto,” è la sua intelligente risposta.

La transizione di Jyn da spettatore indifferente a dura ribelle è il cuore e l’anima del film, la carne del suo sodo secondo atto, ma la sceneggiatura firmata da Chris Weitz e Tony Gilroy è troppo occupata a collegare i punti dello scopo più grande della pellicola per dare alla protagonista la traiettoria che lei merita. Invece, la circondano di un pittoresco cast di personaggi, che richiederebbero ben più amore e attenzione di quelli che il lungometraggio è disposto a dargli.

Diego Luna si perde un po’ tra gli archetipi, ma è più o meno affascinante nei panni di un ufficiale di Alleanza Ribelle dell’Intelligence con il compito di utilizzare Jyn come esca. Riz Ahmed passa la maggior parte del suo tempo sullo schermo come pilota disertore dell’Impero che non sfrutta appieno il potenziale del personaggio. Jiang Wen e il leggendario Donnie Yen sono – almeno sulla carta – delle aggiunte esaltanti per la squadra, interpretando rispettivamente un killer professionista e un sostenitore dei Jedi e della Forza cieco che brandisce un bastone alla maniera di uno Yoda live-action – ma è imperdonabile quanta poca attenzione venga riservata loro durante il conflitto a fuoco finale, tutto carisma e niente anima.

La nota dolente arriva da K-2SO (doppiato in originale da Alan Tudyk sicuramente meglio di quanto fatto nella versione italiana), un droide imperiale  – che ricorda vagamente il robot dalle lunghe braccia e dalla testa piccola di Laputa – Castello nel Cielo – rubato e riprogrammato dai ribelli. Un tempo rinforzo spietato, ora spalla comica dal comportamento e dalla battuta praticamente umana (molto più di C-3PO), è decisamente il prezzo più evidente pagato a mamma Disney.

rogue one star wars trailerCome questi cowboy dello spazio si incontrino non è né interessante né importante, ma seguire come si imbattono gli uni negli altri regala un diario di viaggio divertente in giro per hotspot intergalattici (alcuni dei quali esplodono in modo assolutamente soddisfacente).

Nessun regista di Star Wars ha descritto questi mondi tanto amorevolmente quanto fa Gareth Edwards – e pur non riuscendo mai a evocare set più massicci e maestosi di quelli messi in risalto nel 2014 col suo Godzilla, non perde occasione per mostrare timore reverenziale verso il paesaggio.

Rogue One è al suo meglio quando si prende una pausa e si sofferma sulla lontana Morte Nera che sorge come una luna grigio cenere nel cielo, quando trasforma un deserto desolato nelle rovine di una civiltà caduta, quando – in una fantastica sequenza nei primi minuti – rimette in scena La battaglia di Algeri in un mercato spazzato dalla sabbia brulicante di vita aliena e facendo uso incerto delle violente immagini provenienti dal Medio Oriente contemporaneo.

Sono gli unici momenti in cui Rogue One tiene fede alla sua promessa di essere un film di guerra, e non solo un film di Star Wars (pur senza spade laser, titoli di testa a scorrimento verticale e musiche di John Williams), con un numero di morti leggermente più alto (anche se la battaglia spaziale nel finale è abbellita con una carneficina sufficiente a farlo diventare il primo della saga per bodycount potenziale).

Come così tante altre cose di questa pellicola, questo elettrizzante passaggio resta sospeso tra il passato di una galassia e il presente di un’altra. Rogue One – che esce 11 anni dopo il suo prequel e 39 anni dopo il suo sequel – non è solo un ponte tra le generazioni, è un punto di contatto tra l’analogico e i metodi digitali della narrazione.

E, a quel livello, è assolutamente affascinante. Gareth Edwards venera chiaramente il genio pratico del design di Lucas e il suo film fa un grande lavoro nel mescolare tocchi moderni (ad esempio, un momento fondamentale ruota sull’attivare un segnale satellitare) con inflessioni più materiali (si veda il momento parallelo al precedente in cui qualcuno deve premere un interruttore metallico deliziosamente rétro). L’intero film è in convincente equilibrio tra vecchio e nuovo, deciso a spianare i buchi causati da sconvolgimenti aziendali e creativi nel corso degli anni e a forzare un sentimento di coesione in uno degli spettacoli più iconici di Hollywood. Si tratta di portare la pace nella galassia in più modi.

rogue one donnieSe soltanto il rinnovamento non avesse creato più dossi sulla strada che zolle ripianate, se soltanto Rogue One non avesse condiviso la tragica necessità dei suoi personaggi di essere definito dalla sua missione …

Il film è completamente compresso dal suo proposito, strangolato da Darth Vader e dall’ombra della sua guerra incombente. È sufficientemente frustrante che i blockbuster contemporanei siano diventati così episodici e che ogni capitolo di una saga sia una pubblicità per il prossimo, ma è ancora più soffocante guardare un film che deve adattarsi per forza ai contorni di un sequel che il mondo ha già mandato da tempo a memoria.

Quasi tutto ciò che funziona in Rogue One lo fa sulle proprie sole forze, e quasi tutto ciò che non funziona lo fa per rispetto verso altri film che già si reggono bene per conto loro. Può essere simpatico guardare questo cast intraprendere l’avventura e fare nodi alle estremità libere del franchise, ma l’opera di Gareth Edwards non si limita a sfruttare le prime due trilogie, si basa su di esse (una sensazione che lo rende ancora più avvilente per l’evidente capacità del regista di dotare di emozione alcuni momenti sui generis con i fremiti tipici della serie).

[SPOILER leggeri]

Rogue One è ricco di esempi di questa narrazione parassitaria, ma presenta anche una decisione particolarmente imperdonabile rispetto alle altre, una sciagura al pari di Jar Jar Binks o il Jabba digitale inserito nell’edizione speciale di Una nuova speranza. Si tratta di quello che potrebbe essere il peggior personaggio in CG nella storia della moderna Hollywood: un (più) giovane Wilhuff Tarkin. È così, hanno riportato indietro dalla morte Peter Cushing, e i risultati sono innaturali e non etici, ai limiti dell’empio.

Peggio di tutto, sono orribili. La scorza digitale senza vita di Cushing è un’offesa al più bel film Star Wars fino ad oggi, con la sua presenza che comprime l’aria in molte sequenze. Il Tarkin zombie è macabro e mette a disagio, ma – peggio – la sua presenza non è solamente una macchia sulla faccia di Rogue One, si tratta di un sintomo della sua fatale decisione di glorificare il passato a scapito del tracciare un nuovo corso per il presente.

Siamo a questo punto ormai, coi realizzatori che decidono di scritturare Lazzaro, trasformandolo così che nessuno si sarebbe reso conto di quanto migliore sarebbe stato il film togliendo del tutto dall’equazione Tarkin (il cui unico scopo è quello di rendere inerme Orson Krennic, un villain ridotto a null’altro che all’ennesima minaccia fantasma).

[Fine SPOILER]

rogue oneNaturalmente, in un film dove tutto è frustrante e niente è facile, non è una sorpresa che gli ultimi minuti si adeguino totalmente a questo modo di pensare e realizzino il pieno potenziale di questa continuità retroattiva. In parti uguali soddisfacenti e fastidiosi, i momenti finali di Rogue One sono abbastanza buoni da ingannare lo spettatore, inducendolo a pensare che l’intera impresa sia stata in fondo una buona idea.

Ma per tutto il fan service, l’epilogo funziona solo a causa del modo in cui illustra il tema più importante della pellicola: le ribellioni sono costruite sulla speranza, e la speranza si costruisce insieme.

Rogue One, in modo più fluente di qualsiasi altra storia di Star Wars, parla dell’idea che la resistenza sia un lavoro di squadra, e che ogni atto di eroismo sia reso possibile dai sacrifici di mille altri – che ogni eroe nasce da un migliaio di persone i cui nomi saranno dimenticati. Questo è un film su come anche i più piccoli atti di coraggio possono cambiare il mondo, un’opera sul fare la cosa giusta anche quando è più facile guardare al proprio orticello e rimanere nella formazione.

Non soltanto Rogue One avrebbe potuto essere il raro blockbuster moderno che avrebbe potuto permettersi di rischiare qualcosa di reale, ma è il raro blockbuster moderno che si era dato la vera e propria responsabilità di farlo. Eppure, nonostante tutto il suo entusiasmo e l’occasionale splendore, non c’è niente di minimamente ribelle in esso. Avrebbe potuto essere speciale, invece è solo … forzato.

Di seguito il trailer ufficiale italiano di Rogue One: